Milano Cambia Pelle

Milano cambia pelle

Daniele Desperati x Osservatorio Offline

Antefatto. I Guerrieri della notte.

Milano, 2021. è circa l’una di notte, sto attraversando un parchetto alla periferia est della città. Il piccolo spazio verde con vialetto di ghiaia, luogo prediletto per le feste della comunità peruviana del quartiere, è male illuminato e offre un lato del suo perimetro ad alcune aree di servizio dell’Azienda Trasporti Milanesi (ATM).
Oltre quest’area i binari della metro sprofondano nel tunnel sotterrano diretti verso il centro, nella direzione opposta ci sono le colonne d’Ercole della Città Metropolitana, gli alti piloni di cemento della tangenziale est.

Ci sono tre figure davanti a me. Una è arrampicata sulla recinzione che separa il parchetto da quanto descritto sopra, le altre due la seguono di pochi passi. Dal vociare sommesso, dai gesti agitati e dalle sagome snelle s’intuisce la loro giovane età, probabilmente sono minorenni (a sostegno di questa tesi c’è anche l’agilità con cui li ho visti scavalcare, che mi ha fatto rimpiangere fasi più elastiche della mia vita). I loro movimenti sono accompagnati da un tintinnio metallico che proviene dagli zainetti sulle loro spalle: è la sfera di miscelazione che rimbalza sulle pareti interne delle bombolette spray.

Nel frattempo sono a pochi passi da loro. Mi vedono e in pochi secondi spariscono, inghiottiti dal tunnel, incuranti dei cartelli minacciosi sui quali uno sbiadito teschio piratesco avvisa:

Pericolo di morte.

Sono rimasto solo. Dal tunnel esce un convoglio della verde: un serpente di neon bianco che risplende tra i palazzi di edilizia popolare di Viale Palmanova. Poco distante c’è la stazione, la prima in superficie uscendo dalla città. Chi vive in centro forse nemmeno lo sa che la metro a un certo punto spunta dal ventre sotterraneo e rivede la luce del sole. Nell’aria riverbera la voce metallica degli altoparlanti: ultimo treno per Cascina Gobba. Cascina Gobba – Ultimo treno.

Fa un po’ Guerrieri della Notte, no?

Flashback (1999-2001) Falkor e un grosso bastone.

Per me, nato e cresciuto nella provincia del nord Italia, circondato dalla pianura bonificata e consacrata alla piccola media impresa, alla villetta plurifamiliare e al decoro, Milano ha sempre significato una cosa: le scritte sui muri. Per molto tempo però, di questa città graficizzata, mi arrivavano soltanto immagini indirette, come messaggi nella bottiglia su una spiaggia. Dietro la casa in cui sono cresciuto passava, anzi passa, una ferrovia secondaria della linea Milano-Venezia, principalmente percorsa da infiniti e lentissimi treni merci*.

*Deve essere per questo che successivamente ho sviluppato un’attrazione particolare verso i logotipi delle compagnie di logistica e di trasporto su rotaia (Maersk, MSC Cargo ecc.).

Immaginatemi come il Ragazzo di Campagna che aspetta trepidante l’arrivo del treno i cui convogli e conteiner arrugginiti scorrevano davanti ai miei occhi, trasportando nel monotono e monocromo paesaggio della campagna industriale pezzi e tag coloratissime che mi raccontavano le gesta lontane dei loro artefici, eroi incappucciati e incuranti della legge che vivevano laggiù, dove tutto era possibile.

Alla stazione di Treviglio invece fermavano i treni regionali dei pendolari. Devastati dai vandali: taggati, coperti da strati e strati di graffiti, vernice e con i finestrini e le pareti di alluminio scratchate (creare scritte graffiando le superfici con vetri rotti, sassi, cacciaviti, chiodi ecc). Per me, piccolo grafomane in erba, era come se il cane-drago Falkor fosse arrivato al binario sette.

Come prevedibile, presto fui contagiato dal germe dell’emulazione. Tuttavia la mia precoce carriera da piccolo writer di provincia venne stroncata sul nascere quando la guardia giurata di un grande centro commerciale mi beccò in flagrante a taggare la porta di un’uscita di sicurezza.

[ Le prossime frasi leggetele immaginandovi nella testa I Wanna Be Sedated dei Ramones]

Provai a fuggire, percorsi a manetta le scale, mi infilai in una scala anti-incendio ma lui mi ribeccò nel parcheggio (i jeans calati sotto al culo e le Etnies slacciate mi impedivano di correre alla velocità necessaria a seminare un cinquantenne sovrappeso). Insomma, beccato bello mio.

La guardia mi strattonò per il braccio fino ad un piccolo ufficio senza finestre. Lì minacciò di chiamare la mia scuola (dove in effetti io sarei dovuto essere a quell’ora) ma una volta capito che da me non avrebbe mai avuto un vero nome o una qualsiasi informazione anagrafica (Ajeje Brazorv insegna) estrasse un grosso bastone di legno da sotto la scrivania e con aria da caporale fascista mancato mi invitò a “non farlo più”.

Eccolo lì, davanti al mio naso, il braccio armato del decoro contro il vandalismo giovanile, che minaccia con un randello un ragazzino di tredici anni.
Non saprò mai se avesse davvero intenzione di colpirmi perché, nel dubbio, lo spinsi via, spalancai la porta e me la diedi a gambe con il cuore in gola.

[Fine Ramones]

Da quel momento abbandonai la strada e trasferii la mie manie grafiche in luoghi cartacei e digitali più sicuri, dove poter lasciare il mio “segno” senza coprirmi il volto, senza soffrire il freddo dell’inverno padano (le notti di nebbia sono ideali per le pratiche illegali) ma, soprattutto, dove non c’erano fasci nostalgici e bastoni a minacciarmi. La sensazione latente di essere un codardo mi accompagna ancora oggi, insieme a un gigantesco complesso di inferiorità nei confronti di quelli veri.

Una cosa detta da Ivano Atzori aka DUMBO

Breve elenco di domande e frasi fatte che chiunque abbia mai fatto uno scarabocchio con un pennarello si è sentito ripetere fino alla nausea.

  • E se lo facessero sul muro di casa tua?
  • Non ho niente contro i murales, quelli belli però.
  • Perché a te i treni piacciono così?
  • Poi per ripulire però usano le nostre tasse!

Una volta per tutte. Il punto è questo. La tag non è un decoro, un tocco d’arte o la volontà di esprimere il proprio talento. La tag è l’appropriazione indebita di una piccola porzione della città, una sfida al pensiero della legalità, un reato, un calcio nelle palle al rispetto civico.

E più aggressiva è l’invasione dello spazio altrui quanto più, forse, ha ottenuto il suo scopo. La tag non ti deve piacere. La devi odiare. Deve essere il peggiore incubo dei Ned Flanders della città, quelli che hanno i gerani fioriti tutto l’anno sul balcone.

credit: @Ivano_Atzori

“Aveva probabilmente ragione. Non mi sono mai sentito criminale, forse disorientato. Mi era difficile trovare un ruolo. Avere un ruolo è complesso. Vivere in una società che costantemente ci richiede o ci ricorda di avere un ruolo è faticoso, frustrante. Disorienta appunto. Il mio ruolo lo immaginavo comunque in centro. Non in periferia tra quelle merde di palazzi. Quale fosse il ruolo non mi preoccupava quanto il dove. Prendersi gli spazi in centro città era per me legittimo.”

— DUMBO —

Basquiat in franchising e la guerra al “brutto”.

“Il sottopassaggio di via Padova si trasforma: diventerà presto una galleria d’arte”. Intitolava così un articolo che lessi qualche settimana fa. Si parlava del sottopassaggio di via Padova 89, poco distante da casa mia. Il sottopassaggio in questione è un posto di merda, diciamolo chiaro e tondo.

Sporco, con infiltrazioni gocciolanti di acqua putrida, male illuminato e poco sicuro. Ora è stato ripulito, i suoi muri sono stati verniciati di bianco, ospitano alcune opere e un racconto di storytelling per immagini. Secondo me ora è un posto un po’ meno di merda (grazie) ma con delle brutte pareti, un po’ parrocchiali e totalmente estranee al contesto (non me ne vogliano gli artisti e le associazioni coinvolte).

PS: il bianco che fa da contorno alle opere diventerà presto grigio-piombo per via dello smog e dell’umidità. Per questo i sottopassaggi solitamente non sono bianchi e, sempre per questo, solitamente i sottopassaggi non sono gallerie d’arte ma, appunto, sottopassaggi. Quando è iniziata questa crociata? Quando abbiamo deciso di neutralizzare il brutto in ogni sua forma? Perché non possiamo più accettare che un sottopassaggio di periferia sia un sottopassaggio di periferia e non la caricatura di un museo?

Stacco. Qualche fermata di autobus in direzione centro.

Adiacente alla Stazione Centrale ha aperto da poco un nuovo Mercato Coperto: cibo di strada e un’estetica urban studiata, almeno nelle intenzioni, per aderire organicamente all’ambiente, o come si dice, alle vibes della stazione.
Sui muri del mercato, lasciati al grezzo, le indicazioni compaiono sotto forma di graffiti – graficamente a metà tra scene di caccia rupestri e una versione in franchising di Basquiat. Qua e là, a riempire la narrazione, anche ritratti multietnici in forma di poster abilmente invecchiati e scrostati.

FUORI si cerca l’antidoto al degrado DENTRO degradare è diventato un modo per estetizzare. L’equazione prevede di portare le gallerie d’arte in strada (togliendo alla strada il principio di essere strada) e al contempo sposta la strada dentro le gallerie (togliendo alla galleria il principio di essere galleria) — Sul tema vedi: The Man Who Stole Banksy.  Si rimuovono i graffiti vandalici con i Clean Up Days perché “deturpano la città e trasmettono un costante segnale di insicurezza al cittadino, allontanandolo psicologicamente dal proprio quartiere.”

Subito dopo, spostandosi di qualche metro, se ne mette in scena una versione legale e ripulita al servizio delle merci.
L’insicurezza del cittadino che diventa sicurezza del consumatore.
Dal cibo si strada del Mercato Centrale all’alta moda del centro: Gucci Wall, Feels Like Prada, la casa di Toilet Paper. Sono le photo opportunity che i marchi creano sui muri della città, importando con qualche anno di latenza il modello Brooklyn, dove da anni i grandi murales riproducono esattamente le campagne fotografiche sostituendosi alle classiche affissioni.

E così mentre davanti al Leoncavallo una ruspa fa spazio ad un edificio residenziale spazzando via un muro che dal 1994 ospitava il lavoro di diversi writer, tra via Padova e il Casoretto scende in strada la street art del mutuo a tasso variabile sotto forma di murales di Fineco Bank.

Nel Blu dipinto di Blu.

Quella dell’appropriazione culturale di questi pezzi di strada è una storia già vista in giro per il mondo. Da Williamsburg – Berlino, dove nel 2014 Blu condannò due sue grandi opere ad una copertura di vernice nera, anticipando l’arrivo dei bulldozer che anche in quel caso avrebbero fatto spazio a un edificio esclusivo nel cuore dell’alternativa Kreuzberg “con vista su importanti opere di street art” (nel pacchetto di riqualificazione fu incluso anche lo sgombero di uno spazio artistico occupato). Fino alla controversa mostra di street art al Museo della Storia di Genus Bononiae di Bologna che scatenò di nuovo l’ira di Blu con le conseguenti colate di vernice grigia a sancire anche quella volta l’eutanasia delle sue opere, appena prima che il museo se ne impadronisse.

Mentre sui muri dei quartieri compaiono le opere/insegna di illustratori e street artist (alcune molto belle) le tag leggendarie della città invecchiano, sbiadiscono, parlano di una città diversa, che riemerge da un altro tempo. Quando non c’era il feed di Instagram e per lasciare una traccia della tua esistenza nel mondo dovevi inventarti una sigla e spalmarla su più posti possibili. Mandare un messaggio a pochi e fare incazzare tutti gli altri. Lì il gioco era invertito: anonimato vs celebrità. Agire e tornare nell’ombra. Come un Liberato ante litteram, con la differenza che si poteva finire in caserma da un momento all’altro.

Milano Cambia pelle.

Saracinesche, muri, pensiline, panchine: la maggior parte di questa città è ricoperta da questi segni grafici istintivi e violenti, da sigle incomprensibili ai più, tracciate con spray, pennelli, vernici e inchiostri acrilici. Lateralmente alla narrazione di capitale della moda e del design Milano è stata una delle protagoniste indiscusse della scena internazionale dei graffiti (una bella panoramica in All City Writers: The Graffiti Diaspora).
Lo è stata a tal punto che, se muovendoci per le sue vie oscurassimo qualsiasi cosa ad eccezione dei graffiti, la città sarebbe comunque leggibile ai nostri occhi. Si distinguerebbero le case, le strade e le fermate dei mezzi pubblici. Questa forma di vandalismo è un pattern che decodifica l’intera superficie dei suoi spazi urbani, è la sua pelle. E come per gli uomini, la pelle è l’organo più esteso del corpo. Milano è un gigantesco serpente, anzi un biscione, che fa la muta sotto i nostri occhi. La pelle nuova al posto della vecchia.

Le amministrazioni comunali si succedono, il tema del decoro torna ciclicamente a fomentare il dibattito e la gentrificazione avanza inesorabile in ogni direzione ma per un inspiegabile fenomeno di resilienza la pelle di Milano resiste. Si ripulisce per ri-sporcarsi di nuovo. Come un’allergia creativa che non viene sconfitta dall’antibiotico dell’omologazione.

I Guerrieri della Notte sono sempre lì, a ficcarsi dentro al buio di un tunnel per lasciare il proprio segno. Uno gesto veloce, uno sfregio a boicottare l’idea di una città dai muri educati, artistici, brandizzati, tematici, celebrativi o nel peggiore dei casi, puliti.

Daniele Desperati