Assioma base, che riguarda tanto le spezie quanto i motori delle automobili, ci dice che quel che conta è il risultato (di una ricerca o del caso). Funziona, non funziona, piace, non piace. E giù a provare e provare per migliorarlo.

Ciò che fa grande o rende qualcosa una COSA – nota, riconosciuta e riconoscibile – sono le esperienze legate a CHI di quella cosa ne ha fatto oggetto del proprio studio e/o ossessione, l’ha usata (e come l’ha fatto) prima che inventata, ed è stato naturalmente predisposto al “viaggio” come percorso di integrazione di suggestioni, visioni, conoscenze di altri, siano persone, animali, mondi, mondi paralleli. E quel CHI è quasi sempre influenzato dal contesto e sceglie che strade percorrere più o meno volontariamente e più o meno da solo.

Questa premessa campata per aria serve ad introdurre la tesi per cui il premiato, noto, riconosciuto e riconoscibile font, tanto amato dai grafici e dai loro clienti (e subdolamente ovunque), segno indistinguibile dello Swiss Style e della comunicazione dagli anni’60 in avanti, forse non sarebbe quello che è senza aver subito, come gli elefanti di Annibale, un passaggio in Italia.

Max Huber, Bruno Munari, Giancarlo Iliprandi, Michele Provinciali, Pino Tovaglia, Albe Steiner, Heinz Waibl sulla scalinata de La Triennale. dall’archivio di Max e Aoi Huber

Non che sia interessante rivendicare l’autenticità di qualcosa, o la sua eziologia, anzi, ci servirà proprio per ragionare oltre i confini (che c’entrano sempre poco e sono limiti astratti, giuridici e burocratici prima che di lingua e culturali tout court). Il QUI e ORA in cui le cose sono avvenute è ciò di cui vogliamo parlare.

Da scheda anagrafe non ci piove. È il 1957, siamo in un piccolo borgo alle porte di Basilea, Münchenstein, fino ad allora noto per un disastro ferroviario a fine ‘800 che vedrà coinvolto il signor Tour Eiffel (eh sì crollano anche i ponti di ferro). Siamo nella stamperia Haas, in guerra con la fonderia H. Berthold AG, e un giovane
impiegato, Max Miedinger, viene incaricato di disegnare un nuovo carattere “senza grazie” (sans serif) ovvero bastone, privo dei tratti terminali, le “grazie” appunto. Nasce così il Neue Haas Grotesk, poi ribattezzato orgogliosamente Helvetica (Helvetia è il nome latino della Svizzera). E questa è storia.

Ora facciamo un piccolo salto temporale, torniamo indietro, all’inizio degli anni ’40, e passando le Alpi arriviamo a Milano, a casa di uno dei padri fondatori della grafica moderna: Antonio Boggeri. Violinista incallito, appassionato di fotografia, sulla scia dell’esperienza del Bauhaus, nel 1933 fonda lo Studio Boggeri, primo grande studio di progettazione e comunicazione visiva. Molti designer destinati a diventare maestri si sono formati lì: Munari, Mari, Steiner, Noorda per dirne solo alcuni. Ma a noi interessa il “passaggio” di uno in particolare: Max Huber. Svizzero di nascita, arriva proprio in pieno secondo conflitto mondiale a Milano, leggenda vuole dopo aver presentato al signor Boggeri un preziosissimo biglietto da visita che solo poi si rivelerà interamente “stampato” a mano. Proprio a causa della guerra Max Huber passerà gli anni ‘40 a fare avanti indietro tra Milano e la Svizzera, attraversando spesso le Alpi e tutto quello che ci sta in mezzo. Un globe trotter suo malgrado. A Milano frequenta l’Accademia di Brera ed entra in contatto con la giovane intellighenzia cittadina, anti-fascista, e destinata a risollevare le
sorti della città bombardata. Entrerà in contatto e in amicizia con scrittori e poeti (Fortini, Vittorini), editori (Giulio Einaudi), musicologi e compositori (Roberto Leydi e Luciano Berio), colleghi designer e artisti (Castiglioni, Munari, Steiner, Dorfles, Veronesi) portando avanti insieme a loro l’ideale di un mestiere al servizio di una visione progressista, umanista e umanitaria, di comunicazione di massa come emancipazione, non controllo finalizzato unicamente al mercato e al consumo.

Suoi i logotipi di Coin, Esselunga (il motivo per cui si chiama “S” lunga) e Rinascente, celebri le campagne per Borsalino, manifesti e copertine di cataloghi d’arte e rassegne jazz, mettendo le basi, con Munari, della progettazione editoriale, in un ruolo oggi così prezioso, perché assente, di mediatore tra imprenditori e pubblico.
Su un “tessuto di grafica svizzera, quindi costruito secondo regole quasi aritmetiche” con la sensibilità di un mondo italiano e milanese nella koinè del secondo Dopoguerra, per creare una delle esperienze più significative ed innovative della grafica moderna.

Ci interessa la sua storia che accomuna più mondi e fa da tramite. da “passaggio”. L’epoca in cui i bastoni o lineari, caratteri detti altrove “grotteschi” (privi di “grazia”), dopo il decorativo e naturalista inizio secolo Art Nouveau e la tremenda esperienza della propaganda totalitarista – specie in paesi come Italia e Germania – diventano il nuovo codice visivo della tipografia, grazie ad un processo di modernizzazione dovuto a movimenti spontanei, ritrovi di intelligenze al servizio di un messaggio universale, di un nuovo umanesimo. Huber conosce, usa e formalizza Helvetica prima che nasca ufficialmente. E nel 1957 quel povero impiegato della stamperia sta partecipando a questa rivoluzione, silenziosa, che diventerà presto un forte “rumore” visivo e vivrà il suo momento apicale con il progetto della metropolitana di New York a cura di Bob Noorda, Massimo Vignelli (altro grande designer milanese) e Peter Van Deft dello studio Unimark International a metà anni ‘60.

È con l’Helvetica che la grafica diventa universale. Capita nella mani dei designer giusti e diventa uno strumento sinonimo di chiarezza ed efficacia al servizio delle persone, in “una lotta contro il brutto” (come dirà proprio Massimo Vignelli nel documentario dedicato all’Helvetica) senza classificazione sociale, e forse proprio l’incontro con una delle più grandi linee metropolitane al mondo ne suggella la missione. E c’è quel piccolo simposio milanese di grandi pensatori prima che grandi designer, nella città sconvolta dalla seconda guerra mondiale, dove non contano provenienze, lingua, status economico, dove Max Huber si ritrova a passare e a coltivare, prima del mondo tecnico e specializzato, una cultura generale votata alla bellezza come codice innato della società umana e come chiave per garantirle eterna sopravvivenza.

Ci piaceva raccontare questa piccola storia. Di uno Zeitgeist tutto grafico, che ruota attorno ad un QUI e ORA che ci è molto vicino.

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