Un volo di 9 ore per Mumbai e da lì un treno per il Sud. Tre settimane a disposizione, cinque libri nello zaino. Mentre mi imbarcavo non avevo idea di che giro avrei fatto, quello detto ai miei cari era in balia dell’improvvisazione come lo erano le mie interrogazioni di francese. Mentre scorrevo i film per il viaggio incastrati nel sedile davanti, la mia immaginazione produceva immagini contorte, anche perché tutte le testimonianze raccolte toccavano temi come il traffico orribile, la diarrea, le truffe e, nonostante tutto, l’irresistibile voglia di tornarci. Amo l’ignoto e l’avventura, amo persino alcuni disagi – ma quando sono in posti con un traffico orribile, rivendico almeno il mio diritto a non avere la diarrea (come a Milano, ad esempio). Decollo. Passo tre settimane in India. Ritorno, lascio depositare i pensieri e – sorpresa – eccomi qui anch’io a parlare del mio viaggio in India.
Mettendo per un attimo da parte l’annoso problema del lavoro e tutte le problematiche che lo riguardano, mi chiedo spesso cosa mi serva davvero per vivere. Semplificando, mi dico cibo, acqua, un tetto per quando piove, vestiti e coperte per quando fa freddo. Oltre, entriamo in una zona grigia dove le inclinazioni personali la fanno da padrone – e ciò che per uno è indispensabile per l’altro è superfluo, che si parli di bei vestiti, sigarette, accesso a internet, shampoo, libri o un letto comodo. Stare nella giungla, o più prosaicamente nell’India rurale, è un ottimo modo per rendersi conto cosa sia per noi costitutivo e cosa accessorio. Dalla nostra grassa Europa, ci affacciamo sul resto del mondo chiedendoci come facciano tanti sfortunati a tirare avanti. Nel contempo, incolonnati in tangenziale per il quinto giorno consecutivo, veniamo sfiorati da analoghi dubbi su come stiamo passando il tempo su questo pianeta. Nelle campagne del Karnataka, lo sfaccettato stato dell’India sud-occidentale che ho esplorato per due settimane (anche grazie ai temibili bus della Paulo Travels), la vita scorre con una naturalezza antica: tutto lascia a intendere che i fondamentali dell’esistenza non abbiano subito grandissime trasformazioni nei secoli. Vista col binocolo, a molti apparirà come miseria, ma quando ci sei in mezzo non sono davvero molte le cose che ti mancano del nostro complicatissimo sistema di bisogni. Ciabatte, costume, maglietta, due banane, un piatto di riso e verdure, un asse di legno con materassino su cui riposarsi e un motorino per spostarsi: quello che serve non va molto oltre a questo breve elenco, e in pochi giorni i timori post-coloniali che ti portavi dentro scompaiono e lasciano spazio a una pacifica convivenza con i locali – affabili, pigri e allegri quanto te. Il sole scandisce la giornata senza fantasia, sorgendo con tutta calma (e altrettanta ne hanno gli indiani), impedendo le attività e gli spostamenti nelle ore di massimo fulgore, quindi scendendo repentinamente e invitando gli umani a ritirarsi – in India la notte è il momento di altre creature. E non è tutto: prima di farsi venire in mente i contro di questo lifestyle (e ovviamente ce ne sono: basta ammalarsi e verranno fuori come funghi) si sappia che nell’India del Sud si mangia benissimo ovunque e, cosa più importante, il ritmo lasso e sornione si accompagna a una solidarietà diffusa, anzi a qualcosa che probabilmente noi chiamiamo, con un alto grado di sofisticazione, solidarietà – ma che altrove è solo il normale e addirittura logico modo di relazionarsi tra bipedi. Il mito del buon selvaggio duro a morire? Lo chiedo sulla spiaggia di Gokarna a un ragazzo indiano con cui ho fatto amicizia mentre cerco di ricordarmi gli accordi di un pezzo di Neil Young: mi dice che ama il suo Paese e che ancora deve visitarlo tutto, poi mi cerca su Internet (che, nonostante la giungla, arriva forte e chiaro) per chiedermi l’amicizia, e, in un inglese migliore di quello di molti miei coetanei in Italia, mi chiede quanto voglio per vendergli il mio iPhone 5. Gli spiego che ha la batteria che dura mezzo pomeriggio e che il suo smartphone indiano da 50 euro non ha davvero nulla da invidiare. Ci crede poco, come ci credevo poco io quando comprai il mio. Lo saluto, faccio per tornare alla mia capanna e scopro di avere di fianco un vitello. Altrove mi stupirei, ma qui i bovini fanno parte della vita balneare: sono sacri e portano fortuna come da noi calpestare una cacca (forse un rimasuglio di quando erano sacri anche per noi). Lo guardo: sembra un cane magro e docile, il primo impulso è quello della carezza – non dell’arrosto. Si gira, e corre verso la madre che è letteralmente sotto l’ombrellone. Si allontanano nel tramonto, tranquilli come se avessero capito il segreto per restare lontani dalla città.
Mettendo per un attimo da parte l’annoso problema del lavoro e tutte le problematiche che lo riguardano, mi chiedo spesso cosa mi serva davvero per vivere. Semplificando, mi dico cibo, acqua, un tetto per quando piove, vestiti e coperte per quando fa freddo. Oltre, entriamo in una zona grigia dove le inclinazioni personali la fanno da padrone – e ciò che per uno è indispensabile per l’altro è superfluo, che si parli di bei vestiti, sigarette, accesso a internet, shampoo, libri o un letto comodo. Stare nella giungla, o più prosaicamente nell’India rurale, è un ottimo modo per rendersi conto cosa sia per noi costitutivo e cosa accessorio. Dalla nostra grassa Europa, ci affacciamo sul resto del mondo chiedendoci come facciano tanti sfortunati a tirare avanti. Nel contempo, incolonnati in tangenziale per il quinto giorno consecutivo, veniamo sfiorati da analoghi dubbi su come stiamo passando il tempo su questo pianeta. Nelle campagne del Karnataka, lo sfaccettato stato dell’India sud-occidentale che ho esplorato per due settimane (anche grazie ai temibili bus della Paulo Travels), la vita scorre con una naturalezza antica: tutto lascia a intendere che i fondamentali dell’esistenza non abbiano subito grandissime trasformazioni nei secoli. Vista col binocolo, a molti apparirà come miseria, ma quando ci sei in mezzo non sono davvero molte le cose che ti mancano del nostro complicatissimo sistema di bisogni. Ciabatte, costume, maglietta, due banane, un piatto di riso e verdure, un asse di legno con materassino su cui riposarsi e un motorino per spostarsi: quello che serve non va molto oltre a questo breve elenco, e in pochi giorni i timori post-coloniali che ti portavi dentro scompaiono e lasciano spazio a una pacifica convivenza con i locali – affabili, pigri e allegri quanto te. Il sole scandisce la giornata senza fantasia, sorgendo con tutta calma (e altrettanta ne hanno gli indiani), impedendo le attività e gli spostamenti nelle ore di massimo fulgore, quindi scendendo repentinamente e invitando gli umani a ritirarsi – in India la notte è il momento di altre creature. E non è tutto: prima di farsi venire in mente i contro di questo lifestyle (e ovviamente ce ne sono: basta ammalarsi e verranno fuori come funghi) si sappia che nell’India del Sud si mangia benissimo ovunque e, cosa più importante, il ritmo lasso e sornione si accompagna a una solidarietà diffusa, anzi a qualcosa che probabilmente noi chiamiamo, con un alto grado di sofisticazione, solidarietà – ma che altrove è solo il normale e addirittura logico modo di relazionarsi tra bipedi. Il mito del buon selvaggio duro a morire? Lo chiedo sulla spiaggia di Gokarna a un ragazzo indiano con cui ho fatto amicizia mentre cerco di ricordarmi gli accordi di un pezzo di Neil Young: mi dice che ama il suo Paese e che ancora deve visitarlo tutto, poi mi cerca su Internet (che, nonostante la giungla, arriva forte e chiaro) per chiedermi l’amicizia, e, in un inglese migliore di quello di molti miei coetanei in Italia, mi chiede quanto voglio per vendergli il mio iPhone 5. Gli spiego che ha la batteria che dura mezzo pomeriggio e che il suo smartphone indiano da 50 euro non ha davvero nulla da invidiare. Ci crede poco, come ci credevo poco io quando comprai il mio. Lo saluto, faccio per tornare alla mia capanna e scopro di avere di fianco un vitello. Altrove mi stupirei, ma qui i bovini fanno parte della vita balneare: sono sacri e portano fortuna come da noi calpestare una cacca (forse un rimasuglio di quando erano sacri anche per noi). Lo guardo: sembra un cane magro e docile, il primo impulso è quello della carezza – non dell’arrosto. Si gira, e corre verso la madre che è letteralmente sotto l’ombrellone. Si allontanano nel tramonto, tranquilli come se avessero capito il segreto per restare lontani dalla città.
Federico Dragogna fa tante cose, puoi leggerle quasi tutte su Instagram:
Non amo gli sport estremi o quelle cose in cui la tua vita dipende da chi ha fatto un nodo a qualcosa. Ho provato il cinema 3D con gli occhialini, l’imbuto dell’Aquafan, il veliero del luna park dell’Idroscalo e un emiliano che voleva farci sentire la sua auto truccata. Tutti sommati non fanno neanche la metà di uno sleeper bus indiano della Paulo Travels (che scopro già nota in rete per le sue qualità). Il nome “sleeper bus” è interessante di per sé, dato che dormire è la cosa più insolita che vi ritroverete a fare a bordo (la più comune è pregare). L’alloggio è in pratiche cuccette (vedi foto) – completamente cieche in modo da lasciarti il dubbio che sia uno di quei vecchi simulatori di rally, carissimi e brevissimi, che incontravi alle fiere di paese. Quando parte il gioco, cioè l’autobus, la sensazione è che ci siano solo i cerchioni e il conducente vada il più veloce possibile proprio per andare a comprare delle vere gomme. È notte e i gommisti sono chiusi ma lui supera qualsiasi cosa abbia davanti nonostante la stazza del mezzo e le sue condizioni. Anzi non lui, loro: gli autisti sono due o tre, e si danno il cambio per non scendere mai sotto le 88 miglia orarie. In breve: nove ore di solo audio tenendosi letteralmente a qualsiasi appiglio la cuccetta offra per non volare via. Fuori dal tuo simulatore c’è il traffico indiano, che di notte come di giorno è un prodigio di anarchia e funzionalità: se non ci sei nel mezzo sembra di vedere un video degli Ok Go, se ne fai parte, ad ogni sorpasso fai un veloce bilancio della tua vita e saluti mentalmente chi ti è caro.
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