Testo di Elena Buzzo e Francesca Notaro di The Submarine
Abbiamo chiesto alla band di Porto Alegre che cosa significa per il Brasile avere un leader come Jair Bolsonaro e cosa significa per loro vivere questa situazione politica da Milano.
Il Brasile, con più di 200 milioni di abitanti, è il quinto paese più popoloso al mondo. È un luogo pieno di contraddizioni: presenta aree spopolate e aree sovrappopolate, ha le città più ricche e più povere lungo la stessa costa a pochi chilometri di distanza, è uno dei luoghi preferiti dal turismo LGBTQ, ma è legato a sentimenti ancora molto conservatori, è un paese in cui convivono indios, coloni, discendenti degli schiavi provenienti dall’Africa, ma è ancora percorso da tensioni profondamente razziste.
Governato dal 2003 al 2011 da Luiz Inácio Lula da Silva, e poi dalla sua erede Dilma Rousseff, dopo il terremoto che a partire dal 2014 ha travolto l’intero sistema politico, ma in primis il Partito dei Lavoratori, il paese è rimasto in un limbo di instabilità politica durante il governo transitorio di Michel Temer, da molti considerato illegittimo. Lula aveva agito concretamente per fare uscire il Brasile dalla mappa della fame e a sollevare la soglia minima di povertà, ma lo scandalo di corruzione che l’ha visto coinvolto, per il quale sta scontando una pena detentiva di 12 anni, ha danneggiato estremamente il suo partito, che, dopo più di dieci anni di maggioranza, è crollato davanti alla retorica del nuovo presidente eletto Jair Bolsonaro, un ex militare che nonostante le sue prese di posizione scioccanti è riuscito a sedurre la maggior parte degli elettori.
Bolsonaro ha vinto incolpando della crisi i governi precedenti, e facendo leva sull’emergenza sicurezza, che negli ultimi 10 anni è andata peggiorando — nella classifica del 2017, stilata dal Consiglio cittadino del Messico per la Pubblica Sicurezza, delle 50 città più violente al mondo 17 sono in Brasile. Ma, per combattere la violenza, Bolsonaro ha promesso la liberalizzazione delle armi.
Ci siamo fatti raccontare dai Selton, che vengono da Porto Alegre ma vivono a Milano dal 2006, cosa significa per il Brasile avere oggi un leader come Bolsonaro, e cosa significa per loro vivere questa situazione politica da lontano.
Come state?
Daniel: Bene, ma dire che si sta bene in un momento così è vero fino a un certo punto. Cioè, stiamo bene dove siamo, è un buon momento per il gruppo, ma la situazione politica in Brasile ci genera apprensione e preoccupazione. Speriamo che le promesse che sono state fatte non verranno rispettate dal governo che entrerà in carica.
Avete seguito da vicino la campagna elettorale in Brasile?
Eduardo: Ci è arrivato molto feedback da casa, ma non essendo lì in prima persona l’abbiamo vissuta un po’ a metà tra l’informazione che ci arrivava dai giornali e quella dalle persone molto care a noi.
In Europa e negli Stati Uniti si è discusso molto della base sociale dei populismi di destra, che si sarebbe “scambiata di posto” con quella tradizionale dei partiti di sinistra. Rispetto alla vostra esperienza personale e a quello che hanno votato i vostri amici e parenti, che idea vi siete fatti rispetto alla base sociale dell’elettorato di Bolsonaro?
Daniel: Non mi sorprende che la classe medio-alta abbia votato Bolsonaro, perché il Brasile è un paese che viene da una cultura colonialista dove c’era il padrone con i suoi schiavi. La classe medio-alta vota per mantenere quella élite storica. Il ragionamento che fanno è “io non voglio vedere la signora che mi fa le pulizie in casa nel mio stesso aeroporto”. La cosa che ci ha stupito è la classe più povera che sostiene un piano di governo poco inclusivo che toglierà loro diritti, è un voto emotivo e di identificazione con una figura forte, non per conoscenza di un piano politico.
Con i suoi progetti di inclusione sociale ed economica, Lula ha cercato di far entrare nella vita economica e politica brasiliana un’intera classe sociale che prima ne era esclusa. Ma questo ha scatenato la reazione delle élite. C’è una preferenza per il distacco e la polarizzazione piuttosto che per l’integrazione?
Daniel: Il Brasile è un paese in cui la schiavitù ha lasciato una ferita profonda e la necessità di differenziarsi è forte. Come qui in Italia, c’è sempre qualcuno che viene da più a sud di te, e la classe media preferisce stabilire una linea di separazione.
È bastato questo a far vincere Bolsonaro?
Daniel: Non solo: quello che è successo in queste elezioni nasce anche da una stanchezza e da un certo tipo di comunicazione fatta sui social — è venuto fuori che anche Steve Bannon ha appoggiato Bolsonaro, quindi la modalità è stata molto simile a quella che ha portato al potere Trump negli USA.
(A dieci giorni dal ballottaggio in Brasile, è venuta fuori la notizia di una campagna di diffusione di massa di fake news elettorali finanziata da Bolsonaro e un gruppo di imprenditori brasiliani contro Haddad e il PL ndr.)
Oltre a questo, i numerosi scandali di corruzione hanno portato a una percezione sbagliata della corruzione stessa, spingendo verso l’esasperazione più della metà dei cittadini brasiliani, che pur di cambiare le cose sono stati disposti ad appoggiare una forza politica che sicuramente porterà a un cambiamento, che si rivelerà però estremo.
Anche Lula, alla quarta candidatura, ha vinto avendo alle spalle una simile esigenza di
cambiamento.
Eduardo: Questa è un po’ la storia della politica interna: le alternanze ci sono sempre. In Brasile si è arrivati alle elezioni di nuovo con una spaccatura: da un lato chi era stufo del governo e avrebbe votato qualunque alternativa, dall’altro chi faceva notare che questa alternativa, però, fa schifo. È una situazione molto polarizzata e per la prima volta abbiamo visto amici litigare tra di loro, anche noi con i nostri amici, perché ti ritrovi proprio a non poter più essere amico di chi la pensa diversamente da te — ci sono famiglie in cui le persone non si parlano più.
Daniel: C’è anche da tener conto però che Bolsonaro non rappresenta semplicemente la destra, ma un estremismo: infatti il piano di discussione è quello morale, non tanto quello politico. Anche perché dal punto di vista politico Bolsonaro è molto paradossale perché non è un politico, ma un ex militare; dal punto di vista economico è molto liberale — stato minimo, privatizzazioni — mentre per quanto riguarda tematiche sociali e diritti è estremamente conservatore.
A me non fa paura tanto il tipo di leggi che potrebbe approvare ma il fatto che una persona come lui renda legittimi alcuni comportamenti. Infatti abbiamo per esempio coppie gay che non non girano più per strada mano nella mano perché hanno paura.
Ma come vi spiegate una simile deriva omofoba, sessista e razzista nel vostro paese?
Daniel: Il Brasile è un paese molto paradossale perché è il miglior posto al mondo è il peggior posto al mondo allo stesso tempo. Tom Jobim diceva: «Viver no exterior é bom, mas é uma merda. Viver no Brasil é uma merda, mas é bom» («Vivere all’estero è bello, ma è una merda. Vivere in Brasile è una merda, ma è bello»).
Questa frase rispecchia molto il mondo brasiliano che ha da un lato il massimo della libertà ma dall’altro aspetti conservatori; è uno dei paesi con una popolazione nera più numerosa ed è anche un paese estremamente razzista: questi sono i paradossi del Brasile.
In Europa a trainare il successo dell’estrema destra è stata soprattutto la paranoia legata all’immigrazione dall’Africa. Anche in Brasile Bolsonaro ha cavalcato la paura legata all’insicurezza — anche se la sua proposta, paradossale, è di liberalizzare le armi. Com’è la situazione da questo punto di vista? Com’è vivere in un paese democratico con un livello di criminalità così alto? La mancata sicurezza è percepita come un fallimento dei governi di sinistra passati?
Daniel: Il problema della violenza in Brasile è molto complesso. Deriva da tanti fattori: diverse generazioni di povertà, politiche sociali poco inclusive, un sistema carcerario in crisi, corruzione, polizia sotto pagata, traffico di droga e altri. In più esiste una mancanza di conoscenza dell’organizzazione politica del paese che porta a responsabilizzare il presidente per tutto quello che non funziona, senza rendersi conto che a volte sono le decisioni del prefetto o del governatore che hanno più impatto sulla vita dei cittadini. Questa ignoranza del funzionamento del sistema ti porta ad avere un’opinione sbagliata sul processo democratico e su chi comanda cosa, senza considerare che spesso la questione della sicurezza riguarda più la politica locale che quella nazionale.
Tutto questo si inserisce nel quadro della crisi del Partito dei lavoratori — che però i sondaggi davano favorito se a guidarlo ci fosse stato Lula: quindi, Haddad non ha vinto perché non è Lula?
Entrambi: Sì.
Daniel: Io credo che Lula sia stato un grande conciliatore: è riuscito ad accontentare i super ricchi e intanto governare per i più poveri. Io non ho bisogno di una politica assistenziale, noi abbiamo studiato alla Cattolica e siamo nati dalla parte fortunata del Brasile, ma ci sono persone che muoiono di fame e ovviamente la politica non deve riguardare principalmente me, ma loro, e Lula ce l’ha fatta. Questi sono dei guadagni innegabili a livello sociale e per raggiungerli si è dovuto sporcare le mani — ma non scordiamoci che il processo che l’ha portato in carcere e quindi a non potersi ricandidare è stato uno dei più veloci della storia del Brasile.
Infatti, sono in molti a pensare che il processo a Lula e il conseguente divieto di partecipare alle elezioni sia stato motivato politicamente.
Daniel: Per dei crimini molto più gravi ci sono processi che rimangono per anni a prendere polvere, mentre quello di Lula no. Già solo questo è un indizio che ti fa capire che bisogna essere un po’ più critici.
Eduardo: Il partito è stato molto danneggiato dalla sua immagine e ora senza un personaggio carismatico non è riuscito a reggere.
Daniel: Lo stesso Steve Bannon ha detto che l’elettorato non vota un programma di governo ma vota per emozione, e infatti Bolsonaro non ha un piano politico, non è andato neanche un dibattito politico. È patetico! E dico che il problema è morale perché non puoi avere dubbi su chi votare se da un lato hai un professore, ex ministro dell’istruzione, una persona preparata senza nessun passato di corruzione, e dall’altro una persona che fa apologia della tortura. Non esiste paragone, la questione è morale!
Da Ronaldinho a Kaká, molti dei calciatori brasiliani più popolari al mondo hanno apertamente appoggiato Bolsonaro. Da personaggi pubblici, di spettacolo, come vi sembra che abbia reagito o stia reagendo il mondo della cultura in Brasile? C’è un movimento di opinione che possa essere un riferimento per l’opposizione?
Daniel: Sono capre! Il movimento di opinione c’è ed è fortissimo: moltissimi artisti si sono uniti contro Bolsonaro. Per esempio Caetano Veloso non ha votato Haddad, ma comunque si è unito al coro dell’opposizione per dire a gran voce che questo governo è inaccettabile. La cosa più bella di queste elezioni è stata proprio l’unione delle persone a favore di un piano più inclusivo, al di là delle difficoltà della sinistra e del Partito dei lavoratori.
Eduardo: Molti degli artisti che oggi compongono l’opposizione hanno lottato contro la dittatura e dover scendere in piazza adesso, di nuovo, a 70 anni per combatterne un’altra deve essere veramente tosto.
Voi avete fatto alcuni post su Instagram in italiano, vi siete schierati. Vivete con una certa
responsabilità il ruolo che avete?
Daniel: In un momento del genere, se hai la possibilità di avere una voce hai anche una responsabilità e ci siamo sentiti in dovere di farlo. Abbiamo scelto di farlo in italiano perché il nostro pubblico è italiano per la maggior parte, e in portoghese avremmo raggiunto meno persone. Ed essendo molto collegato a quello che sta succedendo qui a maggior ragione era giusto farlo in italiano.
Abbiamo letto in un’intervista che avete fatto su Billboard che il vostro album Manifesto Tropicale si ispira al Manifesto Antropofago di Oswald de Andrade. Questa immagine di qualcosa che mangia se stessa e accoglie tutto ciò che viene da fuori è una caratteristica sia del vostro paese sia della musica che fate (con influenze che vanno dai Beatles a Jannacci). Secondo voi questa caratteristica della cultura brasiliana sopravviverà a Bolsonaro?
Eduardo: Ma sì questa cosa fa parte del DNA del Brasile. Il Manifesto Antropofago è stato scritto alcuna anni prima della settimana dell’arte moderna del 1922, l’emblema del modernismo brasiliano, che è una cosa molto diversa dal modernismo europeo. Si pensa che il modernismo sia una corrente univoca, ma se in Europa era legato ai cambiamenti legati alla rivoluzione industriale, in Brasile invece non si viveva quel momento di sviluppo, e quindi c’era la necessità di indagare ancora la propria identità. Di conseguenza il modernismo brasiliano è stato caratterizzato più da uno sguardo rivolto all’indietro, domandandosi“ Chi è il brasiliano? Sono gli l’indios che erano prima ancora che si chiamasse Brasile? I portoghesi colonizzatori? Oppure gli schiavi importati dall’africa? Che cosa siamo?” Noi siamo la prima generazione della nostra famiglia che è ritornata in Europa e ci siamo rifatti le stesse domande: il nostro disco parla un po’ di questo.
All’inizio del vostro ultimo tour avete detto «L’integrazione tra popoli e culture sarà la regola», ora avete un nuovo album in preparazione e quindi immagino un nuovo tour in futuro: questo slogan sarà ancora la caratteristica delle vostre date
Daniel: Sicuramente sì, ma ci stiamo ancora lavorando quindi non sappiamo dirti nel dettaglio. Parlavamo l’altro giorno del ruolo dell’arte nella vita di tutti i giorni e riflettevamo che ci sono dei momenti in cui ascoltare una canzone d’amore è la cosa più bella che ti possa capitare, al di là del disastro di quello che ti sta succedendo attorno. È importante riuscire a staccare per non vivere solo di astio e critiche. Il lato più spensierato e poetico è necessario all’essere umani. E così ci siamo chiesti che tipo di disco volevamo fare, se una cosa più spensierata o impegnata. Visto che siamo frutto di quello che sta succedendo anche qui in Italia, è molto probabile che il disco rifletta i temi attuali di cui abbiamo parlato oggi.
In attesa del loro prossimo album, ci siamo fatti lasciare qualche consiglio musicale — per consolarci del ritorno del fascismo.
Testo di Elena Buzzo e Francesca Notaro di The Submarine
Abbiamo chiesto alla band di Porto Alegre che cosa significa per il Brasile avere un leader come Jair Bolsonaro e cosa significa per loro vivere questa situazione politica da Milano.
Il Brasile, con più di 200 milioni di abitanti, è il quinto paese più popoloso al mondo. È un luogo pieno di contraddizioni: presenta aree spopolate e aree sovrappopolate, ha le città più ricche e più povere lungo la stessa costa a pochi chilometri di distanza, è uno dei luoghi preferiti dal turismo LGBTQ, ma è legato a sentimenti ancora molto conservatori, è un paese in cui convivono indios, coloni, discendenti degli schiavi provenienti dall’Africa, ma è ancora percorso da tensioni profondamente razziste.
Governato dal 2003 al 2011 da Luiz Inácio Lula da Silva, e poi dalla sua erede Dilma Rousseff, dopo il terremoto che a partire dal 2014 ha travolto l’intero sistema politico, ma in primis il Partito dei Lavoratori, il paese è rimasto in un limbo di instabilità politica durante il governo transitorio di Michel Temer, da molti considerato illegittimo. Lula aveva agito concretamente per fare uscire il Brasile dalla mappa della fame e a sollevare la soglia minima di povertà, ma lo scandalo di corruzione che l’ha visto coinvolto, per il quale sta scontando una pena detentiva di 12 anni, ha danneggiato estremamente il suo partito, che, dopo più di dieci anni di maggioranza, è crollato davanti alla retorica del nuovo presidente eletto Jair Bolsonaro, un ex militare che nonostante le sue prese di posizione scioccanti è riuscito a sedurre la maggior parte degli elettori.
Bolsonaro ha vinto incolpando della crisi i governi precedenti, e facendo leva sull’emergenza sicurezza, che negli ultimi 10 anni è andata peggiorando — nella classifica del 2017, stilata dal Consiglio cittadino del Messico per la Pubblica Sicurezza, delle 50 città più violente al mondo 17 sono in Brasile. Ma, per combattere la violenza, Bolsonaro ha promesso la liberalizzazione delle armi.
Ci siamo fatti raccontare dai Selton, che vengono da Porto Alegre ma vivono a Milano dal 2006, cosa significa per il Brasile avere oggi un leader come Bolsonaro, e cosa significa per loro vivere questa situazione politica da lontano.
Come state?
Daniel: Bene, ma dire che si sta bene in un momento così è vero fino a un certo punto. Cioè, stiamo bene dove siamo, è un buon momento per il gruppo, ma la situazione politica in Brasile ci genera apprensione e preoccupazione. Speriamo che le promesse che sono state fatte non verranno rispettate dal governo che entrerà in carica.
Avete seguito da vicino la campagna elettorale in Brasile?
Eduardo: Ci è arrivato molto feedback da casa, ma non essendo lì in prima persona l’abbiamo vissuta un po’ a metà tra l’informazione che ci arrivava dai giornali e quella dalle persone molto care a noi.
In Europa e negli Stati Uniti si è discusso molto della base sociale dei populismi di destra, che si sarebbe “scambiata di posto” con quella tradizionale dei partiti di sinistra. Rispetto alla vostra esperienza personale e a quello che hanno votato i vostri amici e parenti, che idea vi siete fatti rispetto alla base sociale dell’elettorato di Bolsonaro?
Daniel: Non mi sorprende che la classe medio-alta abbia votato Bolsonaro, perché il Brasile è un paese che viene da una cultura colonialista dove c’era il padrone con i suoi schiavi. La classe medio-alta vota per mantenere quella élite storica. Il ragionamento che fanno è “io non voglio vedere la signora che mi fa le pulizie in casa nel mio stesso aeroporto”. La cosa che ci ha stupito è la classe più povera che sostiene un piano di governo poco inclusivo che toglierà loro diritti, è un voto emotivo e di identificazione con una figura forte, non per conoscenza di un piano politico.
Con i suoi progetti di inclusione sociale ed economica, Lula ha cercato di far entrare nella vita economica e politica brasiliana un’intera classe sociale che prima ne era esclusa. Ma questo ha scatenato la reazione delle élite. C’è una preferenza per il distacco e la polarizzazione piuttosto che per l’integrazione?
Daniel: Il Brasile è un paese in cui la schiavitù ha lasciato una ferita profonda e la necessità di differenziarsi è forte. Come qui in Italia, c’è sempre qualcuno che viene da più a sud di te, e la classe media preferisce stabilire una linea di separazione.
È bastato questo a far vincere Bolsonaro?
Daniel: Non solo: quello che è successo in queste elezioni nasce anche da una stanchezza e da un certo tipo di comunicazione fatta sui social — è venuto fuori che anche Steve Bannon ha appoggiato Bolsonaro, quindi la modalità è stata molto simile a quella che ha portato al potere Trump negli USA.
(A dieci giorni dal ballottaggio in Brasile, è venuta fuori la notizia di una campagna di diffusione di massa di fake news elettorali finanziata da Bolsonaro e un gruppo di imprenditori brasiliani contro Haddad e il PL ndr.)
Oltre a questo, i numerosi scandali di corruzione hanno portato a una percezione sbagliata della corruzione stessa, spingendo verso l’esasperazione più della metà dei cittadini brasiliani, che pur di cambiare le cose sono stati disposti ad appoggiare una forza politica che sicuramente porterà a un cambiamento, che si rivelerà però estremo.
Anche Lula, alla quarta candidatura, ha vinto avendo alle spalle una simile esigenza di
cambiamento.
Eduardo: Questa è un po’ la storia della politica interna: le alternanze ci sono sempre. In Brasile si è arrivati alle elezioni di nuovo con una spaccatura: da un lato chi era stufo del governo e avrebbe votato qualunque alternativa, dall’altro chi faceva notare che questa alternativa, però, fa schifo. È una situazione molto polarizzata e per la prima volta abbiamo visto amici litigare tra di loro, anche noi con i nostri amici, perché ti ritrovi proprio a non poter più essere amico di chi la pensa diversamente da te — ci sono famiglie in cui le persone non si parlano più.
Daniel: C’è anche da tener conto però che Bolsonaro non rappresenta semplicemente la destra, ma un estremismo: infatti il piano di discussione è quello morale, non tanto quello politico. Anche perché dal punto di vista politico Bolsonaro è molto paradossale perché non è un politico, ma un ex militare; dal punto di vista economico è molto liberale — stato minimo, privatizzazioni — mentre per quanto riguarda tematiche sociali e diritti è estremamente conservatore.
A me non fa paura tanto il tipo di leggi che potrebbe approvare ma il fatto che una persona come lui renda legittimi alcuni comportamenti. Infatti abbiamo per esempio coppie gay che non non girano più per strada mano nella mano perché hanno paura.
Ma come vi spiegate una simile deriva omofoba, sessista e razzista nel vostro paese?
Daniel: Il Brasile è un paese molto paradossale perché è il miglior posto al mondo è il peggior posto al mondo allo stesso tempo. Tom Jobim diceva: «Viver no exterior é bom, mas é uma merda. Viver no Brasil é uma merda, mas é bom» («Vivere all’estero è bello, ma è una merda. Vivere in Brasile è una merda, ma è bello»).
Questa frase rispecchia molto il mondo brasiliano che ha da un lato il massimo della libertà ma dall’altro aspetti conservatori; è uno dei paesi con una popolazione nera più numerosa ed è anche un paese estremamente razzista: questi sono i paradossi del Brasile.
In Europa a trainare il successo dell’estrema destra è stata soprattutto la paranoia legata all’immigrazione dall’Africa. Anche in Brasile Bolsonaro ha cavalcato la paura legata all’insicurezza — anche se la sua proposta, paradossale, è di liberalizzare le armi. Com’è la situazione da questo punto di vista? Com’è vivere in un paese democratico con un livello di criminalità così alto? La mancata sicurezza è percepita come un fallimento dei governi di sinistra passati?
Daniel: Il problema della violenza in Brasile è molto complesso. Deriva da tanti fattori: diverse generazioni di povertà, politiche sociali poco inclusive, un sistema carcerario in crisi, corruzione, polizia sotto pagata, traffico di droga e altri. In più esiste una mancanza di conoscenza dell’organizzazione politica del paese che porta a responsabilizzare il presidente per tutto quello che non funziona, senza rendersi conto che a volte sono le decisioni del prefetto o del governatore che hanno più impatto sulla vita dei cittadini. Questa ignoranza del funzionamento del sistema ti porta ad avere un’opinione sbagliata sul processo democratico e su chi comanda cosa, senza considerare che spesso la questione della sicurezza riguarda più la politica locale che quella nazionale.
Tutto questo si inserisce nel quadro della crisi del Partito dei lavoratori — che però i sondaggi davano favorito se a guidarlo ci fosse stato Lula: quindi, Haddad non ha vinto perché non è Lula?
Entrambi: Sì.
Daniel: Io credo che Lula sia stato un grande conciliatore: è riuscito ad accontentare i super ricchi e intanto governare per i più poveri. Io non ho bisogno di una politica assistenziale, noi abbiamo studiato alla Cattolica e siamo nati dalla parte fortunata del Brasile, ma ci sono persone che muoiono di fame e ovviamente la politica non deve riguardare principalmente me, ma loro, e Lula ce l’ha fatta. Questi sono dei guadagni innegabili a livello sociale e per raggiungerli si è dovuto sporcare le mani — ma non scordiamoci che il processo che l’ha portato in carcere e quindi a non potersi ricandidare è stato uno dei più veloci della storia del Brasile.
Infatti, sono in molti a pensare che il processo a Lula e il conseguente divieto di partecipare alle elezioni sia stato motivato politicamente.
Daniel: Per dei crimini molto più gravi ci sono processi che rimangono per anni a prendere polvere, mentre quello di Lula no. Già solo questo è un indizio che ti fa capire che bisogna essere un po’ più critici.
Eduardo: Il partito è stato molto danneggiato dalla sua immagine e ora senza un personaggio carismatico non è riuscito a reggere.
Daniel: Lo stesso Steve Bannon ha detto che l’elettorato non vota un programma di governo ma vota per emozione, e infatti Bolsonaro non ha un piano politico, non è andato neanche un dibattito politico. È patetico! E dico che il problema è morale perché non puoi avere dubbi su chi votare se da un lato hai un professore, ex ministro dell’istruzione, una persona preparata senza nessun passato di corruzione, e dall’altro una persona che fa apologia della tortura. Non esiste paragone, la questione è morale!
Da Ronaldinho a Kaká, molti dei calciatori brasiliani più popolari al mondo hanno apertamente appoggiato Bolsonaro. Da personaggi pubblici, di spettacolo, come vi sembra che abbia reagito o stia reagendo il mondo della cultura in Brasile? C’è un movimento di opinione che possa essere un riferimento per l’opposizione?
Daniel: Sono capre! Il movimento di opinione c’è ed è fortissimo: moltissimi artisti si sono uniti contro Bolsonaro. Per esempio Caetano Veloso non ha votato Haddad, ma comunque si è unito al coro dell’opposizione per dire a gran voce che questo governo è inaccettabile. La cosa più bella di queste elezioni è stata proprio l’unione delle persone a favore di un piano più inclusivo, al di là delle difficoltà della sinistra e del Partito dei lavoratori.
Eduardo: Molti degli artisti che oggi compongono l’opposizione hanno lottato contro la dittatura e dover scendere in piazza adesso, di nuovo, a 70 anni per combatterne un’altra deve essere veramente tosto.
Voi avete fatto alcuni post su Instagram in italiano, vi siete schierati. Vivete con una certa
responsabilità il ruolo che avete?
Daniel: In un momento del genere, se hai la possibilità di avere una voce hai anche una responsabilità e ci siamo sentiti in dovere di farlo. Abbiamo scelto di farlo in italiano perché il nostro pubblico è italiano per la maggior parte, e in portoghese avremmo raggiunto meno persone. Ed essendo molto collegato a quello che sta succedendo qui a maggior ragione era giusto farlo in italiano.
Abbiamo letto in un’intervista che avete fatto su Billboard che il vostro album Manifesto Tropicale si ispira al Manifesto Antropofago di Oswald de Andrade. Questa immagine di qualcosa che mangia se stessa e accoglie tutto ciò che viene da fuori è una caratteristica sia del vostro paese sia della musica che fate (con influenze che vanno dai Beatles a Jannacci). Secondo voi questa caratteristica della cultura brasiliana sopravviverà a Bolsonaro?
Eduardo: Ma sì questa cosa fa parte del DNA del Brasile. Il Manifesto Antropofago è stato scritto alcuna anni prima della settimana dell’arte moderna del 1922, l’emblema del modernismo brasiliano, che è una cosa molto diversa dal modernismo europeo. Si pensa che il modernismo sia una corrente univoca, ma se in Europa era legato ai cambiamenti legati alla rivoluzione industriale, in Brasile invece non si viveva quel momento di sviluppo, e quindi c’era la necessità di indagare ancora la propria identità. Di conseguenza il modernismo brasiliano è stato caratterizzato più da uno sguardo rivolto all’indietro, domandandosi“ Chi è il brasiliano? Sono gli l’indios che erano prima ancora che si chiamasse Brasile? I portoghesi colonizzatori? Oppure gli schiavi importati dall’africa? Che cosa siamo?” Noi siamo la prima generazione della nostra famiglia che è ritornata in Europa e ci siamo rifatti le stesse domande: il nostro disco parla un po’ di questo.
All’inizio del vostro ultimo tour avete detto «L’integrazione tra popoli e culture sarà la regola», ora avete un nuovo album in preparazione e quindi immagino un nuovo tour in futuro: questo slogan sarà ancora la caratteristica delle vostre date
Daniel: Sicuramente sì, ma ci stiamo ancora lavorando quindi non sappiamo dirti nel dettaglio. Parlavamo l’altro giorno del ruolo dell’arte nella vita di tutti i giorni e riflettevamo che ci sono dei momenti in cui ascoltare una canzone d’amore è la cosa più bella che ti possa capitare, al di là del disastro di quello che ti sta succedendo attorno. È importante riuscire a staccare per non vivere solo di astio e critiche. Il lato più spensierato e poetico è necessario all’essere umani. E così ci siamo chiesti che tipo di disco volevamo fare, se una cosa più spensierata o impegnata. Visto che siamo frutto di quello che sta succedendo anche qui in Italia, è molto probabile che il disco rifletta i temi attuali di cui abbiamo parlato oggi.
In attesa del loro prossimo album, ci siamo fatti lasciare qualche consiglio musicale — per consolarci del ritorno del fascismo.