di Filippo Duò
È una di quelle sere autunnali, in cui si vuole stare bene e lasciarsi andare, e per farlo ci si affida alle proprie zone di comfort. In particolare, nel mio caso, esistono dei veri e propri “comfort movies”: film visti un numero indefinito di volte superiore alla decina e in grado di suscitare emozioni conosciute e rassicuranti, nulla che possa turbare o che possa impegnare mentalmente per quelle due ore. Di solito mi muovo tra il filone dei lavori di John Hughes (Mamma ho perso l’aereo, Bella in rosa, The Breakfast Club), classici (Blade Runner, Rocky, Ghostbusters, Taxi Driver, Gremlins) e uscite più recenti che mi hanno estremamente colpito (Ready Player One, Get Out), senza dimenticare le filmografie dei miei amati Sergio Leone, Wes Anderson e Quentin Tarantino.
Però esiste anche una mia serie comfort per eccellenza, che guarderei in loop per giorni e mesi, pur conoscendola a memoria: Stranger Things. Apro quindi la terza stagione, la più recente, per rifare il mio solito viaggetto tra il Luna Park estivo di Hawkins e il Sottosopra, più creepy che mai. In una scena, ad un certo punto, i protagonisti sono al cinema pronti a vedere Ritorno Al Futuro, preceduto da un trailer de Il giorno degli zombi di George A. Romero.
Nel giro di pochissimi istanti ho ricevuto una sequenza di input visivi e sonori fortissimi, totalmente immersivi: quelle musiche, quei colori, quei vestiti, tutto mi stava lentamente procurando una nostalgia inspiegabile. Dico inspiegabile perché di fatto stavo provando la mancanza di un’epoca che non ho vissuto, essendo io nato a fine anni ’90. Il che mi ha permesso di addentrarmi in una più ampia riflessione.
La nostra è un’epoca rapida, spesso effimera, postmoderna. Come palliativo a ciò ci aggrappiamo a ricordi e sensazioni di un passato che ci sembra cristallizzato: un’America anni ’80 sospesa nello spazio-tempo. Un’America in cui tutto sembra cool e aperto ad un futuro affascinante: dai synth affilati che popolano le hit radiofoniche alle le scarpe auto-allaccianti di Marty McFly, dall’estetica in cellulosa a Space Invaders.
Nel corso degli anni, come già successo in passato con altre epoche, alcuni periodi storici del ‘900 sono stati rivalutati e mitizzati a posteriori. Sicuramente questo è il caso, per l’appunto, degli anni ’80. Inizialmente considerati una parentesi superficiale, frivola e consumistica dello scorso secolo, hanno assunto un’aura mitica sempre più forte e decisiva, portatrice di leggerezza in contrasto con un presente incerto e difficoltoso. “Sì, effettivamente il presente ha spesso queste caratteristiche” penso. La celebrazione del decennio non ha escluso nessun medium: sono nati film, libri e serie tv ambientati in quell’epoca e la musica stessa ha recuperato profondamente sonorità tipiche del periodo come le tastiere Juno e le drum machines riverberate.
A supporto di questi sentimenti nostalgici sono sorte delle correnti di fedelissimi dell’estetica anni ’80, comprendente videogame in 8-bit, serie tv ambientate tra California e Florida, auto futuristiche affiancate a Ferrari Testarossa Spider uscite direttamente da OutRun, brani dance pop e amori adolescenziali.
Questa corrente detta retrofuturismo, impregnata di luci al neon, atmosfere sci-fi e “piogge” di sintetizzatori, è diventata decisamente visibile su Instagram. Numerose sono le pagine dedicate a questo specifico mood, tra meme, battute ricorrenti e inside jokes per nerd, orgogliosamente liberi di rivendicare tale appellativo. Tra i più noti esponenti di questo movimento artistico e culturale vi sono pellicole come Drive di Nicolas Winding Refn, 2011, la musica di Kavinsky e la celebre puntata San Junipero della serie di Netflix Black Mirror. Da questo fermento è sorta persino un’etichetta discografica chiamata, in modo piuttosto emblematico, New Retrowave, specializzata in produzioni contemporanee ma dal chiaro sapore ‘80s, come se il tempo si fosse fermato e si ascoltassero ancora le musicassette.
Mi ostino ad approfondire l’argomento online, e scopro feticismi incredibili: su tutti i vari video in cui si vede un centro commerciale vuoto, con le luci accese ma senza avventori, mentre al suo interno risuona dagli altoparlanti lo-fi Africa, il brano manifesto dei Toto. Il risultato finale è straniante, permettendo un mescolarsi continuo di ricordi e pulsioni, a tratti in maniera distopica. A confermare ciò uno dei commenti sotto alla clip: “Non riesco a capire se questo sia pensato per essere surreale o nostalgico.”
Proseguendo, ormai capisco che la serata non sarà più di relax. Ho la mente occupata da dover buttare già questi pensieri nero su bianco. Maledetta semiotica studiata all’università. L’argomento mi permette di collegare tanti puntini che, nell’osservazione del quotidiano, rimangono sospesi e senza risposta. Comincia una nuova puntata, ed è lì che comprendo che nel caso di Stranger Things il fenomeno è ancora più ampio. La sigla, è l’unione grafica e sonora a rendere suggestiva e indimenticabile l’esperienza, fin dai primi secondi: la composizione originale è a cura dei musicisti Kyle Dixon e Michael Stein, già membri della band Survive, e riesce a portare in scena tensione e mistero tramite l’utilizzo di sintetizzatori modulari arpeggiati. Il sound si rifà esplicitamente a quanto proposto proprio nel passato: ricorda molto i lavori di John Carpenter e di Giorgio Moroder, veri pionieri nell’utilizzo della strumentazione analogica.
L’incisività della narrazione della serie è garantita anche da un’accurata scelta di brani, spaziando moltissimo tra i generi: dal punk al pop, dalla disco music al metal. Ogni stagione contiene, una vastissima selezione musicale paragonabile a una playlist radiofonica del tempo. A ben pensarci questo è uno dei tanti elementi che me l’ha fatta amare. Molti ragazzi, oggi, hanno scoperto successi di un’epoca precedente entrati a far parte a pieno titolo dell’immaginario popolare e culturale. Sunglasses of Night di Corey Hart, Nocturnal Me di Echo & The Bunnymen, Every Breath You Take dei Police e Rock You Like a Hurricane degli Scorpions: questi sono solo alcuni dei singoli banger tratti dalle radio anni ’80 e proposti nella serie, ma la lista completa è lunghissima.
E riflettendoci questo non si riferisce solo agli anni ’80, abbiamo una società fondata sulla nostalgia di epoche non vissute. È curioso. Siamo eternamente insoddisfatti? Mentre mi arrovello sul concetto mi vengono in mente in ordine sparso: la Belle Époque idealizzata in Midnight in Paris di Woody Allen; i ruggenti anni ’20; la Roma felliniana; la Swinging London degli anni ’60; la scena punk rock newyorkese. Potrei avanti ore, mi rendo conto che il tema è vasto e importante. Comincio ad avere sonno.
Nell’ultimo decennio si è andato a configurare un sentimento nostalgico imperante, la cui diffusione è aumentata esponenzialmente. Il fascino eterno e contemporaneamente generazionale dei successi del passato li ha ripuliti dalla patina del tempo, donandogli una nuova giovinezza. Nel dibattito si è inserito anche il noto regista Steven Spielberg, che, in un’intervista del 2018, ha detto: “Credo che siamo nostalgici degli anni ’80 perché era una decade in cui non esisteva lo stress. Tutto era semplice, innocuo, lo stile e la musica di quei tempi – i Duran Duran, Eddie Van Halen – era tutto fantastico.”
Rifugiarsi nel passato è il modo più semplice confortevole per scacciare le ansie quotidiane. A maggior ragione le generazioni, una dopo l’altra, idealizzano i periodi storici, eliminandone le possibili insoddisfazioni storicamente insite nell’animo umano e mantenendo aspetti piacevoli, rasserenanti, inoffensivi.
Ripenso a quello scritto da Christian Caliandro. Lessi qualche tempo fa un suo scritto, di cui riporto testuale un estratto, vista l’attualità dei concetti espressi: “Un immaginario molto resistente, efficiente e potente. Nostalgia di un’era che contiene il vero inizio della crisi attuale, le sue premesse. Quando tutto era o sembrava più semplice. Un mondo fatto di molteplici riferimenti, che si integrano e si completano a vicenda: Ocean Drive della mente; Rocky sulla spiaggia con Apollo, o che medita triste sulla morte mentre guida la sua Lamborghini; la breakdance; Ritorno al futuro; i colori fluo; i pattini a rotelle e lo skateboard; la BMX; Mannie in Scarface; le spalline.”
Intanto in tv passa per l’ennesima volta Eleven che si collega con il Sottosopra, sul mio feed di Instagram si alterna Maculay Culkin a Bill Murray, e ho appena ordinato su Amazon una fedelissima riproduzione di una lattina di New Coke. Ora quasi dormo. All’improvviso l’illuminazione: anche in Italia abbiamo un portabandiera della retromania, ma certo! Chi se non Tommaso Paradiso? “La mia malinconia è tutta colpa tua, e di qualche film anni ‘80”, cantava. La nostra Don’t you forget about me? Forse. “Sono stanco, è ora di andare a dormire.”