I meme non fanno solo sorridere: ci servono per definire chi siamo, per esprimerci oltre i messaggi di testo, a pensare. E diventeranno un elemento sempre più importante e predominante della nostra comunicazione
Se siete state sull’internet italiano negli ultimi mesi e leggete la frase “First reaction: shock” molto probabilmente sapete esattamente di cosa stiamo parlando, e, se avete visto troppe volte la clip in cui Matteo Renzi commenta con grande fatica la Brexit, riemersa nei primi giorni dell’anno dalle pagine di “trash italiano,” magari avete anche in mente il suono dell’accento e dell’inglese stentato dell’ex presidente del Consiglio.
Se non avevate visto il video originale — cosa difficile — è normale che il video, e i suoi tanti remix (anche letteralmente remix) non vi facciano ridere: non c’è molto da ridere, a parte per l’imbarazzo. Il motivo per cui “sciocc becoose” fa ridere è il momento condiviso, con persone che fanno parte della stessa bolla: e per questo è comprensibile solo a chi ne conosce il contesto, e “c’era” quando il tormentone è esploso.
La parole meme precede di anni la diffusione capillare di internet, e di decenni gli smartphone. Coniata da Richard Dawkins in Il gene egoista, la parola descriveva originariamente una “entità di informazione riproducibile” come un vero e proprio organismo biologico. Una teoria a metà tra la filosofia del linguaggio e il darwinismo espansa da N.K. Humphrey, secondo cui la natura biologica dei meme era qualcosa di più che una “semplice metafora,” e poi contestualizzata in una vera e propria teoria scientifica in La macchina dei memi di Susan Blackmore, che può essere considerata la vera capostipite della memetica come scienza.
La macchina dei memi è una lettura affascinante, in cui la psicologa arriva a ipotizzare che i meme possano aver influito sullo sviluppo del cervello umano. Ora, beninteso, Dawkins e Blackmore quando parlano di meme non hanno in mente una gif divertente, ma orizzonti molto più ampi: Blackmore parla anche di memeplex, complessi di meme, che si rinforzano uno con l’altro: l’esempio più semplice di queste strutture sarebbe, nientemeno, le religioni.
In questo articolo ci è più utile la definizione data da Patrick Davison in the Language of Internet Memes: “Un meme su internet è un pezzo di cultura, tipicamente una battuta, che guadagna di influenza attraverso la trasmissione online.” Ma allora, perché ci è utile ricordare che il meme man di stonks è molto vicino ad una parabola di Gesù Cristo?
La caratteristica fondamentale che rende i meme una parte insostituibile della nostra comunicazione online è che ci permettono di costruire una comunità e avvertire un senso di appartenenza. Questo è importante, prima di tutto, a livello demografico. Negli ultimi giorni ha iniziato a circolare su internet questo meme, che riprende un format molto popolare nei mesi scorsi. Si tratta di un meme molto basico, che non richiede nessuna conoscenza oltre all’aver assistito all’esplosione dell’originale — ma presenta comunque importanti aspetti di costruzione comunitaria: prima di tutto perché è un inside joke, che può essere capito solo da chi è stato “iniziato” al precedente.
Quanto possono essere ristrette le bolle entro cui circolano meme? Beh, anche veramente microscopiche. Questi, ad esempio, sono meme sulla biodiversità:
Se i meme dalla maggiore capacità di diffondersi sono quelli più malleabili, i loro aspetti più caratteristici sono evidenti in versioni efficaci in bolle più ristrette. Proviamo ad elencare le più evidenti:
Caratteristiche linguistiche
Nei meme si fa ampio uso di neologismi, espressioni forzate, errori grammaticali che vengono elevati a codice comico. Si tratta di un esercizio diffusissimo nei meme in lingua inglese, perché le regole ortografiche della lingua si prestano in modo più elastico a giochi: si parte dagli hoomans con cui parlano i LOLcats dei primi anni Duemila, ma gli esempi sono davvero infiniti. La maggior malleabilità della lingua inglese rende più facile la formazione di neologismi. Questi neologismi possono essere utilizzati, come vero e proprio codice tra autore — del meme — e il suo pubblico all’interno di una comunità.
Ad esempio: se prendo una foto di un politico in una polo blu, in mezzo alla folla — prima del Covid — ma che fa un’espressione strana in quella foto, e la commento dicendo “Blu è sus,” sto facendo un meme che capisce soltanto un’altra persona che gioca ad Among Us. “Sus,” un’abbreviazione di “suspect” o “suspicious,” è in realtà una parola di slang di polizia, e ha anche una storia divisiva e razzista alle proprie spalle, ma negli ultimi mesi ha subito un violento slittamento di significato completamente disimpegnato, essendosi imposto nel gioco, grazie alla propria brevità. (In Among Us uno dei giocatori, identificati dal colore del proprio personaggio, è segretamente un “impostore,” e lo scopo del gioco per gli altri giocatori è individuarlo)
Cultura pop
Se finora eravate sopravvissute senza imbattervi nei meme su Among Us, negli ultimi anni sicuramente non può esservi capitato di evitare i meme ispirati ai film Marvel, e in particolare a quelli su Thanos, certificati tra i meme più lame di internet — a parte Thanos Frog, Thanos Frog era così demenziale da essere genuinamente divertente. I meme attorno a serie televisive, film, gruppi musicali, eccetera sono elementi fondamentali per creare senso di comunità. Il fatto che siano spesso completamente incomprensibili al di fuori del loro gruppo non è un difetto: è un elemento fondamentale con cui subreddit, server su Discord, e fandom su Twitter parlano tra loro. In Italia non abbiamo ancora visto questi elementi della cultura pop filtrare e diventare una vera e propria neolingua, mentre già in inglese i segni sono più profondi. Ma gli esempi più interessanti si osservano in Asia e in America Latina.
Sicuramente ricordate i rage comics, e ora utilizzate degli sticker su Telegram e Whatsapp, ma c’è un anello mancante che collega queste forme ai confini tra meme e comunicazione individuale. Una lettura illuminante in questo senso è From Internet Memes to Emoticon Engineering di Ma Xiaojuan — che racconta come i personaggi dei rage comics, in Cina noti come Baozou comic, si sono trasformati negli anni in sticker che permettono ai netizen cinesi di comunicare emozioni e situazioni complesse in una sola immagine. Ma la chiama “ingegneria delle emoticon,” ed è un microcosmo di tutte le caratteristiche che abbiamo descritto finora: la propulsione dell’espressione artistica individuale, la capacità di esprimersi e di farsi comprendere all’interno della propria bolla, l’utilizzo di immagini e situazioni in contesti quasi linguistici.
I diăosī si riconoscono in contrapposizione con i gāofùshuài (高富帅) e le báifùmĕi (白富美), gli uomini e le donne che sono ricche, belle, e occupano posizione di potere — se vi sembrano paurosamente simili alle etichette di Chad e Stacy diffuse nell’internet Occidentale, non avete torto; fortunatamente però non sono utilizzate nel contesto di un percorso di radicalizzazione misogino, ma piuttosto come meccanismo di difesa per accettare la durissima immobilità sociale cinese.
L’uso degli sticker come “pezzi” per realizzare vignette, image macro, e per punteggiare una conversazione dimostra come i meme siano di più di una gif divertente, ma siano diventati un pezzo fondamentale della cultura globale, necessari per scherzare ma anche per rappresentare le sfaccettature delle emozioni umane attraverso un medium quasi unicamente testuale.
Sticker con la rana e il cavallo di WeChat, che rappresentano come si sentono le persone 屌丝 (diăosī), ovvero non particolarmente belle, non ricche, che non fanno lavori particolari. Non una rilettura millennial dell’“Uomo qualunque,” ma una presa di coscienza quasi di classe, anche se autoironica, della condizione della maggior parte delle persone. Non le capiamo perché siamo completamente fuori dalla bolla.
Politica e gli effetti dei meme sul mondo reale
Come ogni cosa nel mondo, anche i meme sono ovviamente inerentemente politici — e non solo quelli appunto di politica, come “first reaction: shock,” o, molto peggio, come Pepe the Frog, che da innocuo fumetto stoner è diventato letteralmente un simbolo d’odio.
Un fenomeno fondamentale per capire gli effetti negativi che i meme possono avere sulla nostra percezione della realtà si chiama irony poisoning: si potrebbe riassumerlo con l’esempio “a furia di scherzare sul nazismo si diventa nazisti,” ma in realtà si tratta di un meccanismo molto più sottile, basato sul fatto che, attraverso l’ironia, si può diventare insensibili. È successo con Pepe the Frog: da personaggio di nicchia della scena stoner dei primi anni ’10, Pepe è diventato protagonista di un numero sempre più alto di meme nazistoidi condivisi ironicamente e, spesso, in modo innocente — ovvero: da persone sì di destra, ma che non stavano cercando di indottrinare nessuno.
Dall’altra parte ci sono meme che sono dichiaratamente politici e che hanno un ruolo strumentale alla radicalizzazione di nuovi seguaci in un’organizzazione politica, un po’ come questo meme che cerca di negare come ci si radicalizzi su internet e invece lo rappresenta perfettamente:
Quattro membri del gruppo K-Pop LOONA, che nella foto originale non avevano in mano il Manifesto del Partito Comunista
L’esempio forse più cristallino di scontro tra politica e meme, però, arriva dalle proteste antigovernative in Cile, a fine 2019.
Nell’ottobre 2019, in Cile, una manifestazione studentesca — e la sua repressione — hanno scatenato un’ondata di proteste fortissime e organizzate, guidate da un movimento studentesco che all’improvviso si trovava in prima linea di una protesta eterogenea. Mentre la violenza di polizia veniva negata dal presidente Piñera, che sosteneva si trattasse di fake news, le autorità governative cercavano di analizzare le correnti e gli interessi di chi aveva fatto scaturire le proteste. Attraverso un’analisi di “big data” — così dissero i funzionari — il governo arrivò alla conclusione che il primo tra i fattori che avevano radicalizzato i giovani dal paese era il K-Pop, per qualche ragione. Si tratta, ovviamente, di un caso di correlazione e non causa, ma questo non ha fermato tantissimi giovani cileni, che hanno inondato per qualche giorno internet di fancam e meme in cui incrociavano le accuse del governo di essere pericolosi antifascisti e di stannare idol sudcoreani. Quello che i funzionari cileni avevano scoperto, più semplicemente, erano le efficacissime doti organizzative di gruppi guidati in larga parte da giovani donne, che erano sì attiviste, ma dedicavano anche la stessa energia e capacità alle proprie passioni.
L’esempio di un gruppo K-Pop con in mano il Manifesto del Partito Comunista rappresenta anche un’altra categoria di meme: quelli così aggrovigliati che, da fuori, è completamente impossibile capirne la causa, o il senso di lettura. Di seguito, un altro esempio ancora più impossibile da decodificare: si potrebbe trattare di un caso di The Right Can’t Meme, ma potrebbe sembrare anche una finta vignetta conservatrice, ispirata a quelle che Ward Sutton firma come Kelly, il vignettista di the Onion. Risalendo alla pagina dell’artista, è ancora più difficile capirlo. Siamo fuori dal pubblico inteso, e il risultato è che per noi questo contenuto non è completamente decifrabile.
Questa è la caratteristica centrale e ultima per capire come funzionino i meme, la comicità — e in senso più ampio, la comunicazione — oggi su internet. In una cultura post–tutto, che ha realizzato che tutto è un remix e che ogni persona è un’artista, queste piccole immagini a cui si aggiunge una riga di testo, questi sticker usati per esprimere come ci si sente, queste clip di film ricontestualizzate dagli eventi che ci circondano, sono forme espressive come la nostra parola. E ci identificano come le nostre azioni.
Alessandro Massone è co–fondatore di the Submarine, seguilo su Twitter